L’America Latina ed in particolare il Venezuela di Chàvez costituiscono, ormai da molti anni, un laboratorio privilegiato di letture, analisi ed interpretazioni spesso viziate da un dualismo di fondo. Da una parte i detrattori che leggono nel “fenomeno della rivoluzione socialista” l’avvento di un modello autoritario, leaderistico e fuori dal tempo; dall’altra gli apologeti che vedono nel “modello venezuelano” l’unica strada possibile per la costruzione di “un altro mondo possibile”. Sebbene siano molto più ragionevoli le ipotesi degli apologeti, tra l’altro avallate quasi in toto dal movimento altermondialista nato a Seattle e per fortuna ancora vivo e vegeto – come dimostra l’esperienza Rostock – andrebbe forse spostato il punto di vista principale delle analisi attraverso cui fare chiarezza, anche e soprattutto nell’ambito della sinistra istituzionale ed europea. La stampa embedded internazionale, infatti, per gettare fango sull’eperienza venezuelana non si interroga molto sulla sostenibilità del progetto neo-liberista e capitalista che, come tutti sappiamo, agisce ormai su scala globale sussumendo il mondo intero alle regole di Monsieur Le Capital, riducendo qualsiasi progetto alternativo allo spettro di esperienze di socialismo reale effettivamente anacronistiche. La stampa alternativa e apologetica, invece, si limita a vedere nel modello Chàvez una delle soluzioni possibili alla crisi della democrazia rappresentativa attraverso la sostituzione di quest’ultima con il tanto famigerato modello della democrazia partecipativa, ma senza metterne in discussione i limiti qualora il potere massimo rimane nelle mani di una o di poche persone.
Ma le cose, come tutti sappiamo, non sono così semplici, né così tanto facilmente trasferibili da un paese all’altro. Soprattutto quando non si modifica la sostanza delle cose. Ed è da quest’ultima che occorre ripartire. La domanda, infatti, dovrebbe spostarsi dalle “forme” di governo a ciò che oggi vuol dire “sistema capitalistico”.
La partecipazione del popolo sovrano al processo bolivariano, infatti, non si limita ad una distribuzione equa delle risorse solo per mutare l’assetto “gestionale” dei problemi sociali. In altre parole non si affronta la lenta agonia dei sistemi welfaristici, come accade in Europa, solo sussidiarizzando le “emergenze” sociali al cosiddetto “privato sociale” ma, al contrario, si mette in atto in primo luogo una politica rivoluzionaria e anti-capitalistica. Noi facciamo della chirurgia sociale senza mutare l’assetto originario del liberal-paternalismo, in Venezuela hanno prima rovesciato il sistema capitalistico e poi hanno costruito una nuova forma di governo popolare, collettiva e partecipativa.
Già questo è un punto fondamentale e non è, insomma, una differenza di poco conto. Tuttavia di tutto questo e di molto altro si è parlato a Napoli il 4 e il 5 luglio scorsi nell’ambito di una due giorni organizzata dal consolato venezuelano presente nella stessa città di Masaniello e di Eleonora de Fonseca Pimentel. La console Magaly Arocha Rivas ha voluto, con la collaborazione degli enti locali, organizzare una serie di eventi «in occasione del 196° anniversario dell’Indipendenza della Repubblica Bolivariana del Venezuela»che si sono districati in un seminario che ha messo in relazione Bolívar con Giuseppe Garibaldi (di cui ricorre il bicentenario della nascita proprio in questi giorni), nell’inaugurazione del busto del libertador sudamericano presso il Parco Virgiliano di Napoli, in un seminario-dibattito su Bolívar ed il Venezuela di oggi. Quest’ultimo, moderato da Guido Piccoli e svoltosi presso lo spazio conferenze della Libreria Feltrinelli, ha visto la partecipazione di Maurizio Chierici, Roberto Massari e Dario Azzellini, nonché di Rafael Lacava, ambasciatore della Repubblica bolivariana del Venezuela in Italia.
Tra luci e ombre il dibattito ha aperto una serie di problematiche già discusse lasciando al contempo la possibilità di ridiscuterle ancora sulla scia di una domanda comune: quando parliamo del Venezuela facciamo riferimento ad una rivoluzione del XXI secolo?
Le risposte precise a domande altrettanto precise di solito non ci aiutano ad entrare nelle pieghe dei problemi reali, né nella complessità die processi in atto, però consentono di interrogarci, di comprendere, di vedere luci e ombre, cose già fatte e cose da farsi rapportandoci in modo chiaro e leale con la storia e con la nostra contemporaneità.
Tra gli autori di testi specifici sul Venezuela di Chàvez presenti al dibattito la figura di Dario Azzellini, free-lance indipendente, attivista del collettivo Fels (molto presente a Rostock), nonché ricercatore sociale che non a caso vive tra Berlino e Caracas, è stata piuttosto centrale come centrale, per la comprensione del fenomeno della rivoluzione bolivariana
del presente, appare il suo testo edito in Italia da Derive Approdi, Il Venezuela di Chàvez. Una rivoluzione del XXI secolo?, (pp. 284, euro 17). L’autore, infatti, non si abbandona facilmente né a forme di scetticismo aprioristico, né ad esaltazioni politiche senza aver prima descritto a fondo ciò che lui stesso definisce come una società “diversa” immersa, ormai dal 1998, in un’esperienza di grande trasformazione che, in quanto tale, non può che essere letta come un “processo” da interrogare continuamente. Ciononostante il Venezuela di Chàvez ci consente anche di partire da alcune certezze ormai consolidatesi nel corso degli anni e di cui dare conto.
Tra le innumerevoli vale la pena ricordarne almeno alcune: il cosiddetto “processo bolivariano” è in primo luogo una straordinaria prova di ri-politicizzazione della società; la Costituzione del ’99 sancisce alcuni principi profondamente avanguardistici rispetto ad altre costituzioni (compresa quella tanto paventata dell’Ue); la centralità della base rispetto a qualsivoglia processo decisionale; l’allargamento dei diritti sociali; la lotta alla povertà, alle discriminazioni di genere, di orientamento sessuale e di razza; il riordino dei poteri che, accanto ai classici poteri esecutivi, legislativi e giudiziari, vede un decisivo orientamento verso l’esercizio del “comune” incarnato dai consigli comunali e dalle istanze delle comunidades; nonché la “cogestione” delle imprese e la ri-nazionalizzazione del petrolio, la risorsa più importante del Venezuela.
La centralità dei movimenti di base nella forma di governo partecipativa, sancita dalla Costituzione come unica possibile all’interno di un orientamento decisamente socialista e anti-liberista è – tra l’altro - fortemente caratterizzata da una presenza femminile e femminista (il 70% di coloro che partecipano alle missioni educative, ai settori sociali, nonché alla politica – come sostiene lo stesso Azzellini - è donna e già felicemente organizzata, nonostante i residui machisti e patriarcali di tutte le culture latine e/o mediterranee). La difesa della “coscienza di genere” in Venezuela, infatti, non è dissimile dalla difesa della “coscienza di classe” o di “razza” (ricordiamo l’alta componente di culture indigene presenti sul territorio venezuelano) e non perché si parte dal presupposto secondo cui le “vittime” del sistema capitalistico debbano essere protette dal privato sociale, ma semmai l’esatto contrario. Il lavoro domestico, per esempio, viene costituzionalmente riconosciuto e assicurato attraverso il salario alle casalinghe più indigenti e attraverso il versamento contributivo a fini pensionistici per le altre (cosa mai avvenuta in Italia nonostante i dibattiti sul tema avviati fin dagli anni ’70). Organizzazioni autonome di donne come la Coordinadora Nacional de Organizaciones de la Mujer muovono istanze dirette al governo, l’Istituto nazionale per le donne Inamujer nasce - sostiene Azzellini- come “soggetto giuridicamente autonomo e con un proprio capitale” a differenza dei nostri Ministeri al femminile tutti rigorosamente senza portafoglio. La rivoluzione venezuelana, in sintesi, a dispetto di tutti i suoi detrattori, non solo non scinde la sfera degli affetti e delle relazioni dalla necessità di pensare la produzione e la riproduzione sociale attraverso la logica dei bisogni materiali, ma consente a tutte e a tutti di poter essere attori del proprio sviluppo, soggettività politiche in grado di decidere per sé e per il territorio di riferimento. Ce ne fossero, insomma, di seminari come quello organizzato a Napoli.
Avremmo meno discussioni inutili sulle “quote rosa”, meno isterismi securitari, meno notti o taxi rosa e molta più reale partecipazione politica orientata verso un reale mutamento dello stato di cose presenti, laddove per “reale” partecipazione si intende la messa in discussione radicale del sistema capitalistico contemporaneo.
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