Imprese recuperate dai lavoratori nell'emisfero settentrionale durante la crisi attuale
¡Si, podemos!
Novembre 2014, workerscontrol.net / comunianet.org
Originale pubblicato su Org & Demo (Marília) [ISSN: 2238-5703],Vol. 15, n. 1 jan./jun. 2014, pagg. 9-36 (in spagnolo)
Traduzione dallo spagnolo di Antonella Sartori (revisione mb).
Da quando è iniziata la crisi finanziaria e economica nel 2008 varie aziende chiuse in Unione Europea -Italia, Francia, Grecia- e in Turchia ed Egitto, sono state occupate dai loro lavoratori e lavoratrici. Comune in America Latina, il recupero delle imprese costituisce una novità per i paesi dell'emisfero settentrionale del mondo, dove -tralasciando casi isolati e eccezionali- azioni del genere non avvenivano da oltre quarant'anni. In questo articolo dapprima si definiranno i criteri per distinguere tra imprese recuperate da lavoratori e lavoratrici da una parte e cooperative tradizionali e/o cosiddetti workers’ buy-outs dall'altra, ovvero imprese acquisite dai lavoratori durante la crisi. Verranno in seguito descritti e analizzati varî recuperi nei paesi menzionati, individuando caratteristiche comuni e differenze.
INTRODUZIONE
Nel corso della crisi economica e finzianziaria iniziata nel 2008 ci sono state varie occupazioni di fabbriche in varî paesi dell'emisfero settentrionale, in particolare in Francia, Italia, Turchia, e Spagna, ma anche in Svizzera, Germania, Stati Uniti e Canada. Nella maggior parte dei casi l'occupazione da parte dei lavoratori è stata una strategia di lotta e non un un passo verso il controllo operaio. Nei casi con migliore organizzazione operaia i lavoratori hanno raggiunto i loro obiettivi, in altri casi le occupazioni e le lotte -che erano sorte spontaneamente come conseguenza dell'indignazione dei lavoratori davanti alla chiusura dell’impresa o ai massici licenziamenti- si sono sgretolate senza alcun risultato concreto. Per la prima volta dopo decenni, tuttavia, varie lotte sono state condotte con la prospettiva di produrre sotto controllo operaio, qualcosa che non era né nell'immaginario dei lavoratori né in quello dei ricercatori dell'emisfero settentrionale. Dal 2008 i lavoratori hanno recuperato imprese negli Stati Uniti, in Francia, Italia, Grecia, Turchia, Tunisia ed Egitto. In questo articolo si descriveranno e analizzeranno alcune fabbriche recuperate negli Stati Uniti, in Italia, Francia, Grecia, Turchia ed Egitto, individuando le caratteristiche comuni e le differenze.
In America Latina le occupazioni di imprese da parte di lavoratori e lavoratrici hanno accompagnato le crisi economiche sin dagli anni '90, ricevendo un forte impulso grazie alle occupazioni in Argentina dopo la crisi del 1992-2002. All’inizio del 2014 si contavano 311 imprese recuperate da lavoratori e lavoratrici (ERT) in Argentina, dozzine di ERT esistono in Brasile, Uruguay e Venezuela, e in misura minore si trovano ERT anche in quasi tutto il resto del continente (NESS; AZZELINI, 2011, REBÓN, 2004, 2006, RUGGERI, 2010, SITRIN, 2006, 2013). La crisi iniziata nel 2008 ha fatto sì che le occupazioni di imprese siano aumentate un'altra volta. In Argentina sono stati effettuati 63 nuovi recuperi dal marzo 2010, 41 dei quali nel 2012 e 2013 [1].
In Europa o negli Stati Uniti, tuttavia, l’occupazione di imprese per riprendere nuovamente la produzione è qualcosa che, tranne casi isolati, non accadeva per lo meno dagli anni Settanta. Alcune di queste lotte hanno ricevuto attenzione internazionale, come nel caso della Vio.Me di Salonicco, Grecia, che ha iniziato con una nuova produzione sotto controllo operaio nel febbraio 2013, o come la Republic Windows and Doors di Chicago, Stati Uniti, che ha ripreso la produzione nell'aprile 2013. Altre imprese, come la francese Fralib -che si occupava di produrre tè in bustina a Gémenos, Francia, hanno ricevuto un buon interesse nazionale. La maggior parte dei casi, tuttavia, è molto poco conosciuta -come la fabbrica di gelati e yogurt ex-Pilpa in Francia, Officine Zero a Roma e Ri-Maflow a Milano (Italia) , Kazova Tekstil a Istanbul o, in Egitto, l'acciaieria Kouta e la Cleopatra Ceramics con un impianto nella stessa città e un altro in Ain Sukhna. È probabile che altre lotte in corso per il controllo operario e il recupero delle fabbriche non siano ancora conosciute in modo più ampio.
Per tutti i lavoratori e le lavoratrici di queste imprese recuperate le esperienze dell'America Latina, e in particolare quelle dell'Argentina, sono fonte di grande ispirazione [2]. Ri-Maflow a Milano ha adottato il motto “ocupar-resistir-producir” (MALABARBA, 2013, p. 146). Republic Windows and Doors di Chicago e Vio.Me a Salonicco hanno ricevuto visite dai lavoratori di imprese recuperate argentine prima di ricominciare a produrre o anche prima di decidere di porre l’impresa sotto controllo operaio. E anche l'incontro europeo La economía de los trabajadores, che si è tenuto agli inizi del 2014 nella fabbrica recuperata Fralib, vicino a Marsiglia, deve molto all’aiuto argentino [3].
Tutte le occupazioni e i recuperi di imprese nascono da situazioni difensive e non, come è avvenuto in altri momenti storici e in altri contesti, da una posizione di forza. Questa è stata la norma di tutti i recuperi a partire dall'attacco neoliberale sferrato ai lavoratori al principio degli anni Ottanta, con rare eccezioni, come le recenti lotte per il controllo operario in Venezuela. Come conseguenza della crisi, le occupazioni e i recuperi sono condotti da lavoratori e lavoratrici come reazione alla chiusura dell'impianto o dell'impresa, o al trasferimento della produzione in un altro paese. I lavoratori e le lavoratrici difendono il loro posto di lavoro perché le prospettive di trovarne un altro sono cattive, o nulle. In questa situazione difensiva, i lavoratori non si rassegnano e non si limitano a protestare: prendono l'iniziativa e si trasformano in protagonisti. Nella loro lotta, e sul posto di lavoro, i lavoratori costruiscono relazioni sociali orizzontali, adottano meccanismi di democrazia diretta e di presa collettiva delle decisioni. Molte volte le fabbriche recuperate devono reinventarsi. Si costruiscono anche legami con le comunità vicine e con gli altri movimenti.
È importante distinguere la diversità delle situazioni, dei contesti e delle modalità dei recuperi delle imprese compiuti dai lavoratori. E’ anche necessario stabilire alcuni criteri di base rispetto alle fabbriche recuperate. Le caratteristiche finora descritte non sono necessariamente valide per tutti i recuperi di imprese. Non tutte le imprese devono rispondere a tutti i requisiti per essere sussunte nelle ERT in questione. E’ però fondamentale intendere i recuperi non come un atto meramente economico-produttivo ma come un’operazione socio-politica; diversamente, perdiamo il nesso con la capacità generatrice di alternative alla miseria capitalistica delle imprese recuperate. Alcuni autori, sicuramente pieni di buone intenzioni, calcolano che ci siano circa 150 ERT in Europa (TROISI, 2013).
Uno sguardo più accurato ci mostra però che molte poche di queste 150 ERT possono essere realmente considerate imprese/fabbriche recuperate e sotto controllo operaio. Il conteggio include le imprese che sono state acquistate da lavoratori e impiegati. La maggior parte di queste, nel migliore dei casi, ha adottato la struttura delle cooperative tradizionali. Molte, se non la maggioranza, hanno gerarchie interne e quote di proprietà individuali. Nel peggiore dei casi possiamo persino trovare una distribuzione disuguale corrispondente alla gerarchia sociale nell'impresa (e di conseguenza al potere economico, con impiegati e dirigenti con quote maggiori di proprietà) o persino soci e investitori esterni [4] (a titolo individuale o come altre imprese). Definire queste imprese come “recuperate” riduce il concetto di recupero alla sopravvivenza di una Compagnia originariamente destinata alla chiusura, cambiando solo il numero dei proprietari (da uno a molti), alcuni dei quali, o molti, lavorano nell'impresa. Sebbene queste imprese siano riuscite a mantenere posti di lavoro, il termine “recuperate” non sembra appropriato, perché non si muovono verso una prospettiva diversa di organizzazione della produzione e della società.
CI SONO COOPERATIVE E COOPERATIVE
Nel mondo, le imprese recuperate dai lavoratori assumono solitamente la forma legale di cooperativa. Questo si deve al fatto che la forma legale di cooperativa è l'unica possibile per registrare ufficialmente un'impresa con proprietà e amministrazione collettive. Occorre però distinguere tra cooperativismo comune e imprese recuperate. Anche se nella maggioranza dei casi è senza dubbio più piacevole lavorare in una cooperativa (senza superiore, senza gerarchie rigide e con maggiore autodeterminazione) che in un’impresa comune, questo non deve farci omettere le contraddizioni e le problematiche del cooperativismo.
Il cooperativismo raramente mette in discussione la proprietà privata dei mezzi di produzione. E’ anzi la proprietà che solitamente è all'origine del diritto a partecipare alla presa di decisioni e alla ripartizione degli utili. Questo concetto e la sua logica fanno parte del fondamento del capitalismo. Possiamo affermare che le cooperative possono rappresentare un avanzamento nella democratizzazione della proprietà dei mezzi di produzione nella cornice dell'economia capitalista ma, tuttavia, non rappresentano un'alternativa al capitalismo.
Esercitare all'interno di un'economia capitalistica senza seguirne le regole è estremamente difficile. Il capitalismo è una voragine. Se tutte le cooperative fondate nel corso degli ultimi 100 anni seguitassero ad essere cooperative, solidali e controllate da lavoratori e lavoratrici, costituirebbero già una parte importante dell'economia. Ma non è così. La maggior parte delle cooperative vede svanire i propri ideali con l'avanzare dell’età dei suoi membri. La maggior parte delle cooperative che ha iniziato con buone intenzioni e grandi ideali -se è riuscita a sopravvivere in un ambiente ostile- è andata facendo sempre più concessioni ideologiche e materiali. In molti casi, quando raggiungono certe dimensioni, le cooperative vengono acquisite da investitori o compagnie, o adottano loro stesse queste logiche. Come già Rosa Luxemburg (1900, p. 39) affermava:
Le cooperative, soprattutto quelle di produzione, costituiscono una forma ibrida all'interno del capitalismo. Possono essere descritte come piccole unità di produzione socializzata all’interno dello scambio capitalista.
Ma nell' economia capitalista lo scambio domina la produzione (ossia, la produzione dipende in gran misura dalle possibilità del mercato). Quale frutto della concorrenza, il dominio totale del processo di produzione da parte degli interessi del capitalismo -ossia lo sfruttamento spietato- si converte in fattore di sopravvivenza per ogni impresa. Il dominio del capitale sul processo di produzione si estrinseca in varî modi. Il lavoro si intensifica. La giornata lavorativa si accorcia o si allunga a seconda della situazione del mercato. E, a seconda delle richieste del mercato, la mano d'opera è utilizzata o gettata di nuovo in strada. In altre parole, si utilizzano tutti i metodi che permettono all'impresa di far fronte ai suoi concorrenti nel mercato. Gli operai che fondano una cooperativa di produzione si vedono così nella necessità di gestirsi con il massimo rigore. Si vedono costretti ad assumere il ruolo di imprenditori capitalisti, contraddizione questa responsabile del fallimento delle cooperative di produzione che, o si convertono in imprese puramente capitaliste o, se seguitano a predominare gli interessi dei lavoratori, finiscono per dissolversi.
Il fatto che la maggioranza delle cooperative operi nella cornice dell'economia capitalista e competa nel Mercato capitalista seguendo la logica di aumentare il plusvalore, ha ripercussioni profonde per le imprese e i modelli di gestione e produzione che queste adottano. Molte cooperative hanno dipendenti che non fanno parte della stessa. Si riscontrano inoltre differenze di stipendio che, anche se non sono grandi come nelle imprese private comuni, fanno sì che lo stipendio di un alto funzionario amministrativo sia varie volte superiore a quello di un lavoratore comune. Inoltre, sebbene molte cooperative siano di proprietà dei lavoratori, di fatto non sono amministrate da quest'ultimi. Questo è il caso, in particolare, delle cooperative più grandi.
Nella maggior parte delle aree economiche è impossibile competere con le imprese capitaliste e produrre e vendere di più e a minor costo. Il settore economico, cooperativo e solidale crescerà sempre più lentamente di quello privato, che segue rigidamente le regole del capitalismo. Questo accade anche dove le condizioni sono favorevoli, come nel Venezuela degli ultimi 15 anni. Senza una nozione di proprietà comune o proprietà sociale la solidarietà tra cooperative diventa più difficile. Ogni cooperativa tende a vedersi come un’impresa che deve competere con le altre, scollegata dalle altre cooperative, senza dar loro appoggio né riceverne. Ciò che è stato definito come spirito impreditoriale (da ultimo, coscienza imprenditoriale) prenderà il posto dell’impegno di costruire un’economia controllata dai lavoratori e dalle comunità.
Il famoso esempio della rete cooperativa di Mondragón (Mondragón Corporación Cooperativa, MCC) nei Paesi Baschi, frequentemente elogiata come cooperativismo avanzato, evidenzia le tendenze descritte come conseguenze della pressione capitalista. MCC è proprietà dei lavoratori ma non è amministrata da loro. Per sopravvivere in mercati molto competitivi, MCC ha esternalizzato parte della sua produzione in altri paesi d' Europa, Africa, Asia e America Latina. Nel 2014 conta 105 stabilimenti in diversi paesi, tra cui Brasile, Cile, Colombia, Messico, Marocco, Turchia, Thailandia, Taiwan, India, Romania, Slovacchia, Polonia, Repubblica Ceca, Cina (15 stabilimenti!), Vietnam, varî Paesi dell’Europa occidentale, Australia e Stati Uniti. Nessuno di questi stabilimenti è proprietà dei lavoratori e men che meno amministrato da loro.
Il segmento industriale di MCC ha registrato vendite record nel 2012, superando persino i livelli di vendita precedenti la crisi, e ha aperto 11 nuovi stabilimenti produttivi internazionali [5]. Nonostante questi successi, una delle imprese maggiori di MCC, Fagor Electrodomésticos, ha dichiarato bancarotta nell'ottobre 2013, dopo che il Consiglio Generale dei Gruppo Mondragón decise di non salvare l'impresa altamente indebitata a causa delle perdite subite durante la crisi e di una cattiva amministrazione finanziaria. Nello stabilimento dei Paesi Baschi, 5.600 lavoratori e lavoratrici hanno perso il posto di lavoro. Altri posti di lavoro sono a rischio nelle oltre 50 imprese basche fornitrici di Fagor Electrodomésticos. Nel novembre 2013 alcune centinaia di lavoratori e lavoratrici hanno occupato lo stabilimento centrale. Una delle richieste principali era quella che la chiusura non danneggiasse gli investitori individuali, che sono in gran parte lavoratori che hanno investito i loro risparmi. MCC è stata fortemente criticata per la sua decisione, che non sembra molto diversa dal quel che avrebbe potuto fare una qualsiasi compagnia privata ordinaria [6].
Il fatto che le imprese recuperate contemporanee controllate da lavoratori e lavoratrici abbiano quasi sempre la forma legale di cooperative è dovuto al fatto che la cooperativa è l'unica forma legale esistente che permette la proprietà e l'amministrazione collettiva delle imprese. Solitamente, tuttavia, le ERT sono proprietà collettive senza nessuna possibilità di proprietà individuale; tutti i lavoratori hanno ugual proprietà e voce. La domanda implicita della proprietà privata dei mezzi di produzione è una caratteristica importante e distintiva delle ERT. Propongono un'alternativa al capitalismo basata essenzialmente sull'idea di forme di proprietà collettive o proprietà sociali. I mezzi di produzione non sono considerati una proprietà privata (visto che appartengono a individui o gruppi di azionisti) ma proprietà sociale o “proprietà comune”, amministrata direttamente e democraticamente da chi da quei mezzi è stato più danneggiato. In diverse circostanze questo -aldilà dei lavoratori- può includere una partecipazione di comunità, di altri centri di lavoro o persino di alcuni apparati dello stato (per esempio in paesi come Venezuela o Cuba). Il fatto che i lavoratori controllino il processo di produzione e siano centrali nella presa di decisioni, li trasforma in attori politici e sociali, oltre il processo di produzione e dell'impresa (MALABARBA, 2013).
Gigi Malabarba (2013, p.147) afferma correttamente che:
E’ essenziale che le forme di autogestione cooperativa siano strettamente collocate nel quadro di una dinamica conflittuale, in sintonia con l’insieme delle lotte sociali, a partire dalle lotte del lavoro unitamente ai militanti sindacali combattivi: non si può isolare questa lotta, non possiamo smettere di pensare di essere parte di un fronte più complessivo di classe. Come potremmo strappare da soli una legge che consenta sul serio di espropriare le aree occupate per un loro utilizzo sociale? In una parola, come possiamo costruire i rapporti di forza sociali e politici per contrastare la dittatura del capitale e strappare qualche risultato?
Solo in questa forma le cooperative autogestite e le sfere economiche fondate sulla solidarietà possono giocare un ruolo di coesione dei lavoratori e di prefigurazione della fine dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale, evidenziando le contraddizioni del sistema, soprattutto in un periodo di profonda crisi strutturale come l’attuale.
Tutti gli esempi che seguono di imprese recuperate durante la crisi, dal 2008 in poi, concordano con queste modalità. I lavoratori e le lavoratrici di queste imprese recuperate si riconoscono uno nell'altro e si vedono come parte di un movimento più ampio. Makis Anagnostou, portavoce del sindacato dei lavoratori di Vio.Me (Salonicco, Grecia) conferma: “Abbiamo avuto molti contatti con i movimenti internazionali. Attivisti di tutto il mondo sono venuti qui per vedere come lavoriamo. Lavoratori di imprese recuperate argentine e di altri paesi sono venuti a condividere la loro esperienza. Noi prendiamo quelle esperienze e le adattiamo al nostro particolare contesto. Abbiamo partecipato a incontri internazionali di imprese e sentiamo di essere parte di un movimento internazionale. Fin dall'inizio abbiamo voluto che fosse una lotta internazionale perché non crediamo che una fabbrica, o un paese, possano fare la grande differenza”.
I lavoratori dell'acciaieria Kouta in Egitto hanno inviato un comunicato di solidarietà ai lavoratori di Vio.Me quando hanno sentito che la fabbrica era stata occupata (Kouta Steel Factory Workers 2013). Nell'aprile/maggio 2014 i lavoratori di Vio.Me, Officine Zero e Ri-Maflow hanno partecipato alla campagna internazionale di solidarietà con l'Hotel Bauen in Argentina, impresa recuperata da lavoratori e lavoratrici da oltre dieci anni.
IMPRESE RECUPERATE IN FRANCIA
Nel corso della crisi attuale ci sono due casi di ERT in Francia, conosciuti per le loro ardue lotte. Uno è il caso della Fabbrica di Gelati Pilpa e l'altro è quello della Fralib, produttrice di tè e infusi in bustina. Entrambe sono state chiuse da grandi multinazionali proprietarie per rilocalizzare la produzione in altri paesi.
PILPA- LA FABRIQUE DU SUD
Pilpa è una compagnia che da 40 anni produce gelati a Carcassone, vicino a Narbonne, nel Sud della Francia. Pilpa apparteneva alla grande cooperativa agricola 3A, che distribuiva i suoi gelati, di varie marche famose in Francia, nella catena di supermercati Carrefour. A causa di difficoltà finanziare 3A vendette Pilpa nel settembre 2011 all'impresa di gelati e latticini R&R (seconda in Europa per la vendita di gelati, all’epoca apparteneva al fondo di investimenti Oaktree Capital Managment degli Stati Uniti). Nel luglio 2012 R&R annunciò che Pilpa avrebbe chiuso e che la produzione sarebbe stata trasferita, lasciando 113 lavoratori e lavoratrici senza lavoro. R&R aveva acquistato Pilpa solo per acquisire marchi consolidati in Francia e le reti di distribuzione attraverso Carrefour, per aumentare le sue quotazioni (la R&R viene venduta nell'aprile 2013). I lavoratori resistettero, occuparono la fabbrica e cominciarono ad organizzare un movimendo di solidarietà. Il loro obiettivo era salvare il luogo di produzione (BORRITS, 2014).
I lavoratori montarono la guardia 24 ore al giorno per impedire che i proprietari smantellassero la fabbrica e si portassero via i macchinari. Nel dicembre 2012 i lavoratori ottennero una delibera giudiziaria che dichiarava il piano sociale per i lavoratori e gli indennizzi proposti dalla R&R “non adeguati”. Mentre la R&R elaborava una nuova proposta, 27 lavoratori studiarono il modo per trasformare la ex Pilpa in una cooperativa di proprietà dei lavoratori e sotto controllo operaio, con il nome di Fabrique du Sud.
Nel maggio 2013 il nuovo proprietario della R&R accettò di pagare a tutti i lavoratori una somma che andava dalle 14 alle 37 mensilità e 6.000 euro per la formazione professionale. Si impegnò inoltre a pagare alla cooperativa più di 1 milione di euro in assistenza finanziaria e tecnica per formazione professionale e analisi di mercato, consegnando anche i macchinari per una linea di produzione. In cambio la Fabrique du Sud accettò di non operare nello stesso mercato. L'amministrazione municipale di Carcassone decise di comprare il terreno su cui si trova la fabbrica (BORRITS, 2014). Rachid Ait Ouaki (2013), ex lavoratore della Pilpa oggi membro della Fabrique du Sud, chiarisce che per loro non è stato un problema accettare di non operare nella stessa fascia di mercato:
Noi produrremo gelati e yogurt eco-sostenibili e di migliore qualità. Utilizzeremo solo ingredienti regionali –a partire dal latte sino alla frutta- e distribuiremo la nostra produzione a livello locale. Allo stesso tempo, manterremo i prezzi bassi per i consumatori. Non produrremo 23 milioni di litri l'anno come Pilpa. La Fabrique du Sud produrrà 2-3 milioni di litri che possiamo distribuire a livello locale. Solo 21 dei 113 lavoratori della Pilpa si sono uniti alla cooperativa, visto che abbiamo dovuto investire più denaro in questa, includendo il fatto che abbiamo richiesto i benefici di disoccupazione attraverso un programma per la creazione di imprese, e non tutti i lavoratori volevano correre questo rischio.
Come in altri casi, la cooperativa è il modello legale che l'impresa sotto controllo operaio ha dovuto assumere. Le decisioni comunque, vengono prese da tutti i lavoratori e le lavoratrici e i guadagni della produzione iniziata nell'aprile 2014 verranno distribuiti in parti uguali.
FRALIB- IL MARCHIO CON L'ELEFANTE
Fralib è una fabbrica che tratta frutta ed erbe per la produzione di tè in bustina, situata a Gémenos, vicino a Marsiglia. Lo stabilimento produceva il tè per il famoso marchio Thé Eléphant, fondato 120 anni fa, e tè Lipton. Nel settembre 2010 l’azienda transnazionale di alimenti Unilever, proprietaria di Lipton, decise di chiudere i suoi stabilimenti in Francia e trasferire la produzione in Polonia. I lavoratori risposero occupando la fabbrica e lanciando una campagna di boicottaggio contro Unilever. La Confédération Générale du Travail (CGT), sindacato in passato vicino al Partito Comunista, appoggiò i lavoratori della Fralib. “La protesta alla Fralib cominciò il 28 settembre 2010. Nel 2010 c'erano 182 lavoratori. Oggi nella lotta siamo 76”, commenta Gérard Cazorla [7], meccanico e segretario della CGT alla Fralib. I lavoratori vogliono ricominciare la produzione nella fabbrica sotto controllo operaio e tenersi il logo con l'elefante, sostenendo che si tratta di un patrimonio culturale regionale. I lavoratori vogliono produrre tè biologici alle erbe, specialmente di tiglio, basandosi sulla produzione regionale. Come nella maggioranza degli altri casi di ERT, la lotta autogestita dei lavoratori e delle lavoratrici della Fralib ha tre caratteristiche: il progetto produttivo, la protesta pubblica e la costruzione di una campagna di solidarietà, e lotta legale verso Unilever.
Facciamo una produzione militante per far conoscere la nostra lotta e per poter avere i soldi per la campagna di solidarietà. Abbiamo passato molto tempo senza stipendio e dobbiamo vivere. È stata la solidarietà che ci ha permesso di vivere per tutto questo tempo. Mi sembra sia importante far conoscere la nostra lotta in Francia, in Europa e nel mondo, e la nostra produzione ci aiuta in questo. Il nostro prodotto prima era il tè – diciamo- industriale, adesso produciamo tiglio biologico.
Così mostriamo anche che le macchine funzionano e che siamo capaci di far funzionare la fabbrica. Questo è importante per mostrare alla popolazione che la Fralib può funzionare senza padrone e senza Unilever [8].
Il 31 gennaio e l'1 febbraio 2014 la Fralib ha ospitato il primo incontro europeo “L'économie des travailleurs”. Più di 200 lavoratori di 5 fabbriche europee sotto controllo operaio, ricercatori e simpatizzanti hanno partecipato all'incontro ispirato da e direttamente collegato alla conferenza mondiale “La Economía de los Trabajadores”, che è organizzata ogni due anni e ha avuto la sua terza edizione nel 2013, in Brasile. Ricercatori provenienti da Argentina, Messico e Brasile hanno partecipato all'incontro di Marsiglia, come pure un lavoratore della fabbrica tessile argentina Pigüé. Per celebrare l'incontro con una strizzata d'occhio al movimento argentino di ERT, la Fralib ha inaugurato una produzione di yerba mate.
I lavoratori e le lavoratrici della Fralib hanno ottenuto delle ordinanze ministeriali di revoca dei procedimenti di chiusura e dei piani sociali proposti più volte da Unilever. La Fralib non ha chiuso ufficialmente fino al settembre 2012. Nel marzo 2013 Unilever ha smesso di pagare gli stipendi dei lavoratori nonostante una sentenza che obbliga Unilever a pagarli. Nel settembre 2013, la Comunità urbana Marsiglia Provence Métropole ha comprato il terreno su cui si trova la fabbrica pagando 5,3 milioni di euro e pagando un euro simbolico per i macchinari con l’intento di appoggiare gli sforzi dei lavoratori. I lavoratori sanno che questo non è sufficiente per riprendere la produzione e continuano con la loro lotta, come spiega Cazorla:
Nel gennaio 2014 il piano sociale di Unilever è stato revocato da un tribunale per la terza volta. Adesso stiamo discutendo con i direttivi di Unilever, mentre costruiamo il nostro progetto. Abbiamo bisogno dei diritti sul marchio, capitale per comprare la materia prima e capacità di vendere i nostri prodotti, altrimenti non saremo capaci di produrre e pagare 76 lavoratori. Vogliamo che questi soldi li paghi Unilever come compenso per averci licenziato [9].
ITALIA: OFFICINE ZERO E RI-MAFLOW
In Italia negli ultimi anni circa 30-40 piccole e medie imprese in fallimento sono state acquisite dai loro lavoratori e si sono convertite in cooperative. Sebbene siano state equiparate dai mezzi d'informazione con i casi in Argentina (BLICERO, 2013, OCCORSIO, 2013), molte non sono sotto controllo operaio pieno e collettivo, e neppure mirano ad un'alternativa al sistema capitalista. Le cooperative lavorano con una struttura interna gerarchica e il cambiamento del numero dei proprietari non cambia il metodo di funzionamento. Alcune hanno solo una minoranza delle azioni in mano ai lavoratori, mentre la maggioranza è controllata da investitori esterni e dal personale direttivo. Due casi recenti, Officine Zero a Roma e Ri-Maflow a Milano, sono diversi e totalmente equiparabili a molti casi latinoamericani di ERT.
OFFICINE ZERO
Officine Zero, ex RSI (Rail Service Italia), e prima ancora Wagons-Lits (Francia), si dedicava al mantenimento e alla riparazione delle carrozze letto. Quando nel dicembre 2011 i servizi ferroviari italiani decisero di fermare il servizio di treni notturni e investire su quelli ad alta velocità, la RSI chiuse i battenti. In quel momento la forza lavoro era composta da 33 lavoratori metalmeccanici e 26 lavoratori dell'area di trasporto e amministrazione. Tutti iniziarono a ricevere un sussidio di disoccupazione per la chiusura improvvisa dell’impresa. Ma non tutti accettarono la chiusura.Venti lavoratori scelsero la lotta. Emiliano Angèle, che lavorava dal 2001 come meccanico di treni per l'impresa ed era il leader del sindacato, spiega:
Nel febbraio 2012 ci siamo resi conto che non c'era più niente da fare, non avevamo treni in produzione o da riparare, e allora ci chiudemmo dentro la fabbrica come prima forma di protesta. Questo alla fine non servì a nulla visto che non avevamo lavoro. Provammo altre risposte... le manifestazioni tradizionali, contatti con la politica, con il sindacato... tutto questo ci portò nuovamente a lavorare. Accanto alle nostre officine c'è un centro sociale occupato. Ci videro manifestare e offrirono appoggio alla nostra lotta. Al principio appoggiarono la nostra lotta per lavorare nuovamente con le carrozze letto. Dopo un po' di tempo ci chiesero se le officine non potevano essere usate per produrre qualcos'altro. Noi non avevamo alcuna idea al riguardo, tuttavia loro ci presentarono un'idea alternativa basata sulle esperienze argentine, dove le macchine e le strutture sono state usate per produrre o lavorare qualcosa di diverso da prima. Allora nel settembre 2012 abbiamo iniziato a lavorare di nuovo. Abbiamo macchinari di falegnameria, tappezzeria, saldatura e altro. Con una saldatrice non devi necessariamente saldare un treno, puoi saldare qualsiasi cosa... per esempio, il tappezziere che prima rivestiva l'interno dei treni ora sta tappezzando l'interno di una barca. È così che ci siamo rimessi di nuovo al lavoro [10].
Insieme agli attivisti del centro sociale Strike, i lavoratori e le lavoratrici hanno formato un laboratorio di riconversione e hanno organizzato assemblee pubbliche con centinaia di persone. Qui nasce la pazza idea di Officine Zero. Lavoratori precari e indipendenti, artigiani, professionisti e studenti si sono uniti all'occupazione. Il 2 giugno 2013 Officine Zero si è costituita ufficialmente come fabbrica ecosociale e si è presentata al pubblico con una conferenza e una manifestazione. Officine Zero significa: zero padroni, zero sfruttamento, zero inquinamento, come dice il nuovo slogan dell’impresa. Il nome suggerisce anche che si doveva trovare un nuovo punto di partenza. Gli ex lavoratori della RSI si dedicano principalmente al riciclaggio di elettrodomestici, computer e mobili. La commistione tra forme di lavoro nuove e vecchie, unendo differenti situazioni di lavoro precario, cercando di superare l'isolamento e l'individualismo è un'idea centrale del progetto, come Emiliano Angèle spiega:
Abbiamo trasformato gli uffici amministrativi dell'impresa in un’area di condivisione, dove ci sono architetti, chi si occupa di comunicazione, di video produzione ecc. Ci sono dunque molte realtà differenti che collaborano insieme. Io, per esempio, prima ero meccanico, ora ogni tanto aiuto il mio collega a tappezzare la barca, e posso imparare anche nuove forme di lavoro e così fanno anche gli altri nell’impresa. Nella mensa della fabbrica abbiamo aperto un spazio per mangiare, per noi dell’impresa e per gli esterni. Questo è il nuovo progetto che noi chiamiamo Officine Zero. È un progetto che mira non solo a recuperare i posti di lavoro degli interni, ma anche ad aprire lo spazio ad altri lavoratori e ad altre forme di lavoro [11].
Nella ex casa del dirigente dell'impresa, che si trova sullo stesso terreno, ci sono lavori in corso per rimodellarla e trasformarla in una casa per studenti (MASTRANDEA, 2013). I lavoratori si stanno anche preparando per tenere laboratorî di riciclaggio di macchinari elettronici ed energie rinnovabili (BLICERO, 2013).
DA MAFLOW A RI-MAFLOW
Lo stabilimento Maflow di Trezzano sul Naviglio, periferia industriale di Milano, ha fatto parte della transnazionale italiana produttrice di parti di automobile Maflow, che negli anni ‘90 era arrivata ad essere una delle imprese più importanti di impianti di aria condizionata in tutto il mondo, con 23 centri di produzione in diversi paesi. Lontana dal soffrire le conseguenze della crisi e con sufficienti clienti per mantenere tutti gli impianti di produzione, Maflow nel 2009 venne messa in amministrazione forzata dai tribunali, per manipolazione fraudolenta dei capitali e fallimento fraudolento. I 330 lavoratori dello stabilimento di Milano, principale centro di produzione di Maflow, cominciarono una lotta per riaprire l'impianto e mantenere il posto di lavoro. Nel corso della lotta occuparono lo stabilimento e organizzarono spettacolari proteste sui tetti. Grazie a questa lotta ottennero che la Maflow fosse venduta solo come impresa completa, includendo l'impianto di Milano. Nell'ottobre 2010 il gruppo Maflow fu venduto al gruppo di investimento polacco Boryszew. Il nuovo proprietario ridusse l’organico a 80 impiegati. Duecentocinquanta lavoratori passarono in cassa integrazione [12]. Anche così, il nuovo proprietario non riavviò mai la produzione e dopo i due anni durante i quali la legge proibisce la chiusura di un'attività acquisita in queste circostanze, nel dicembre 2012 il gruppo Boryszew chiuse lo stabilimento Maflow di Milano. Prima di chiudere i nuovi proprietari portarono via gran parte dei macchinari (BLICERO 2013, OCCORSO 2013; MASSIMO LETTIERI) [13].
Un gruppo di lavoratori disoccupati si era tenuto in contatto e non era disposto a darsi per vinto. Massimo Lettieri, ex lavoratore e delegato sindacale Maflow del sindacato di base di sinistra e radicale, la Confederazione Unitaria di Base (CUB), spiega:
Facevamo assemblee da quando il gruppo Boryszew aveva comprato tutto. In alcune di queste assemblee abbiamo parlato della possibilità di prendere l'impianto e sviluppare qualche lavoro al suo interno. Non sapevamo esattamente che lavoro avremmo potuto fare, però avevamo capito che dopo tanto tempo in cassa integrazione il prossimo passo sarebbe stata la disoccupazione. Così che non avevamo scelta e dovevamo tentare qualcosa. Nel 2012 abbiamo fatto alcuni studi di mercato e abbiamo deciso di creare una cooperativa per riciclare computer, macchine industriali ed elettrodomestici [14].
Quando lo stabilimento fu chiuso nel dicembre 2012, i lavoratori occuparono la piazza davanti alla vecchia fabbrica e nel febbraio 2013 entrarono e occuparono lo stabilimento, insieme a lavoratori precari e ad alcuni ex lavoratori di una fabbrica vicina chiusa per fallimento fraudolento:
Restare fermi e sperare che qualcuno ti dia una mano non ha senso. Dobbiamo riappropriarci dei beni che altri hanno abbandonato. Io sono disoccupato. Non posso investire del denaro per iniziare una nuova attività. Però posso prendere un capannone (sono 30.000 m² in totale) che è stato abbandonato e avviare un'attività. Così che il nostro primo vero investimento per il progetto è l'attività e l'azione politica. Abbiamo preso una decisione politica. E da lì abbiamo iniziato a lavorare [15].
La cooperativa Ri-Maflow è stata costituita ufficialmente nel marzo 2013. Nel frattempo, l'edificio della fabbrica è passato alla banca Unicredit. Dopo l'occupazione Unicredit ha convenuto di non chiedere lo sgombero. I venti lavoratori e lavoratrici che lavorano alla Ri-Maflow hanno dovuto reinventare completamente sé stessi e la fabbrica, così come descrive Lettieri:
Abbiamo costruito una rete più estesa. La cooperativa Ri-Maflow ha l'obiettivo di sviluppare il riciclo di apparecchiature elettroniche come attività economica. Per raccogliere fondi abbiamo fondato l'associazione Occupy Ri-Maflow, che organizza gli spazi in fabbrica e le attività. In uno dei quattro capannoni abbiamo un mercato dell’usato. Abbiamo aperto un bar, organizziamo concerti e spettacoli teatrali... una parte degli uffici li abbiamo affittati. Con tutte queste attività abbiamo cominciato ad avere un po' di salario e abbiamo potuto comprato un camion e un montacarichi. Abbiamo rifatto tutto l'impianto elettrico, e ci paghiamo 300-400 euro al mese. Non è molto, tuttavia con gli 800 euro [16] di sussidio di disoccupazione si arriva a 1100 euro, che è quasi uno stipendio normale […]. Nel 2014 vogliamo lavorare di più con la cooperativa. Abbiamo due progetti già avviati ed entrambi hanno a che vedere con questioni di ecologia e sostenibilità. Abbiamo costruito alleanze con produttori agricoli biologici locali, formato un gruppo di acquisto solidale, contattato le cooperative di Rosarno, in Calabria. Sono cooperative che pagano stipendi giusti. Tre o quattro anni fa i lavoratori migranti che raccolgono la frutta si sono ribellati contro la schiavitù, lo sfruttamento dei padroni. Noi compriamo arance da quelle cooperative e le vendiamo, e facciamo anche un liquore di limone e arancia, che pure vendiamo. Siamo in contatto con “ingegneri senza frontiere”, che lavorano al Politecnico per sviluppare un grande progetto sul riciclo. Prima di ottenere tutti i permessi necessari per realizzarlo possono passare anni. Abbiamo scelto queste attività per motivi ecologici, riduzione degli sprechi, e inoltre abbiamo già cominciato a riciclare computer, che è facile, ma vogliamo farlo su larga scala [17].
I computer e gli elettrodomestici riciclati sono venduti al mercato dai lavoratori. Il bar-caffetteria apre tutti i giorni durante l'orario di lavoro ed è visitato da altri lavoratori della zona. L'interno del bar-caffetteria proviene da un ospedale di Monza, che si trova a 30 km di distanza da lì. L'ospedale voleva privatizzare il bar, le lavoratrici hanno lottato contro la privatizzazione e hanno vinto. Il bar è stato rinnovato e la vecchia struttura è stata recuperata dalla Ri-Maflow, che aveva appoggiato le lavoratrici di Monza nella loro lotta.
Quello che per un economista tradizionale può sembrare un mosaico di attività, è in realtà una trasformazione socialmente ed ecologicamente utile della fabbrica, con un focus complesso basato principalmente su tre cardini: “a) solidarietà, uguaglianza e autorganizzazione tra tutti gli associati; b) conflittualità nei confronti di controparti pubbliche e private; c) inserimento e promozione di lotte generali per il lavoro, il reddito, i diritti.” (MALABARBA, 3013, p.143).
GRECIA: VIO.ME DAI PRODOTTI CHIMICI PER LA COSTRUZIONE AI SAPONI BIOLOGICI
Vio.Me di Salonicco (Grecia) produceva colla industriale isolante e altri prodotti chimici per l’edilizia. A partire dal 2010 i lavoratori iniziarono a non lavorare ogni quattro-sei settimane per un periodo, senza stipendio. In seguito, i proprietari ridussero i salari dei lavoratori assicurando che sarebbe stato solo un provvedimento temporale e presto avrebbero pagato gli stipendi arretrati. La principale argomentazione dei proprietari era che i guadagni erano calati del 15-20%. Quando i proprietari non mantennero la loro promessa di pagare i salari arretrati, i lavoratori dichiararono sciopero, pretendendo lo stipendio. In risposta alla loro lotta, i proprietari nel maggio 2011 semplicemente abbandonarono la fabbrica, lasciandosi alle spalle 70 lavoratori non pagati. Più tardi, i lavoratori si resero conto che l'impresa continuava a fare profitti e che le “perdite” erano dovute a un prestito che Vio.Me aveva concesso all'impresa madre Philkeram Johnson. Nel luglio 2011 i lavoratori decisero occupare lo stabilimento e prendere in mano il loro futuro. Come Makis Anagnostou, lavoratore della Vio.Me, spiega:
Quando la fabbrica fu abbandonata dai proprietari per prima cosa provammo a negoziare con i politici e con la burocrazia sindacale. Ma comprendemmo in fretta che così facendo l’unico risultato era perdere il nostro tempo e frenare la lotta. Fu un momento difficile; la crisi stava mostrando degli effetti repentini ed intensi. Il tasso di suicidi in Grecia tra i lavoratori aumentò molto ed eravamo preoccupati che qualcuno tra i nostri compagni di lavoro potesse suicidarsi. Pertanto decidemmo di aprire il nostro conflitto lavorativo alla società nel suo complesso e il popolo si convertì in nostro alleato. Abbiamo scoperto che gente che pensavamo non potesse fare niente, in realtà può fare molto! Molti lavoratori non erano d'accordo con noi o non hanno continuato la lotta per altre ragioni. Tra quelli di noi che hanno scelto il cammino della lotta, la base comune del nostro lavoro è l'uguaglianza, la partecipazione e la fiducia [18].
Vio.Me è arrivata ad essere conosciuta a livello nazionale e internazionale. In Grecia ha ispirato altre occupazioni di imprese, anche se nessuna di queste ha avuto successo nel mantenere i posti di lavoro e/o la produzione. Il caso più conosciuto a livello internazionale è stato l'occupazione dell'impresa pubblica di radio e televisione, ERT (Elliniiki Radiofonia Tileorasi). Dopo che il governo aveva annunciato l'11 giugno 2013 che tutte le stazioni radio e televisive pubbliche sarebbero state chiuse (per essere ristrutturare ed essere riaperte con meno lavoratori, meno diritti e salari più bassi), lavoratori e impiegati occuparono la radio e produssero i loro propri programmi fino a che furono brutalmente sgomberati il 5 settembre. I lavoratori di Vio.Me ricominciarono la produzione nel febbraio 2013.
Adesso produciamo prodotti per la pulizia e saponi biologici, non più la colla industriale che producevamo prima. La distribuzione è informale. Siamo noi stessi a vendere i nostri prodotti nei mercati, fiere e festival, buona parte dei nostri prodotti vengono distribuiti grazie ai movimenti, i centri sociali e i negozi che fanno parte dei movimenti. Ciò che abbiamo fatto l'anno scorso è stato, essenzialmente, mantenere la fabbrica attiva. Ancora non possiamo dire di aver ottenuto un risultato molto positivo per quanto riguarda la produzione, la distribuzione e le vendite. I guadagni sono molto bassi e non bastano a mantenere tutti i lavoratori. Di conseguenza, alcuni lavoratori hanno perso fiducia, o si sono stancati, e hanno lasciato Vio.Me. Di recente la nostra assemblea ha deciso all’unanimità di legalizzare la nostra situazione attraverso la costituzione di una cooperativa. Questa decisione ci ha dato nuovo impulso per continuare. Siamo in 20 lavoratori ad aver firmato l'atto costitutivo della cooperativa, ma ce ne sono altri che stanno aspettando di vedere come vanno le cose. Nella struttura della cooperativa abbiamo anche creato la figura del “solidale”, che non è un membro della cooperativa in quanto tale, ma fornisce appoggio finanziario alla cooperativa e in cambio riceve i nostri prodotti. Il solidale può partecipare all'assemblea dei lavoratori e ha un voto consultivo nella presa delle decisioni. I solidali pagano un minimo di 3 euro al mese e con questi soldi riusciamo a pagare i consumi base della fabbrica, come l'elettricità e l'acqua. Avere la società dalla nostra parte grazie a questo modello ci fa sentire più forti [19].
TURCHIA: KAZOVA TEKSTIL- MAGLIONI DI ALTA QUALITÀ PER IL POPOLO
Kazova Tekstil è una fabbrica tessile di Istanbul, Turchia, situata nel distretto di Şişli, vicino alla famosa piazza Taksim. Alla fine del 2012 i proprietari annunciarono ai 94 lavoratori che l'impresa aveva problemi finanziari momentanei e chiesero loro di continuare a lavorare anche se non potevano pagare il salario regolarmente; più tardi, una volta che si fossero superate le difficoltà economiche, tutti gli stipendi arretrati sarebbero stati pagati (SOYLEMEZ, 2014). I lavoratori continuarono a lavorare altri 4 mesi fino al 31 gennaio 2013, quando i proprietari ordinarono a tutti i lavoratori e lavoratrici una vacanza di una settimana senza stipendio. Al loro ritorno i lavoratori trovarono la fabbrica quasi vuota. I proprietari -la famiglia Sumunçu- avevano portato via i macchinari, 100.000 maglioni e 40 tonnellate di materia prima, e lasciarono i lavoratori non solo senza lavoro, ma anche con quattro mesi di salario non pagato (UMUL, 2013). Undici dei 94 lavoratori non si rassegnarono e decisero resistere. Cominciarono a manifestare tutti i sabati nel centro della città di Istanbul con altri lavoratori esigendo i salari non pagati e il rispetto dei diritti dei lavoratori (ERBEY; EIPELDAUER, 2013, SOYLEMEZ, 2014).
Nell'aprile 2013 i lavoratori decisero di indire un accampamento di protesta di fronte alla fabbrica per evitare che i proprietari togliessero anche gli ultimi macchinari rimanenti. In maggio la manifestazione fu attaccata dalla polizia con cannoni ad acqua e gas lacrimogeni. Tuttavia, verso la fine di maggio iniziò il movimento di resistenza intorno al parco Gezi e questo diede forza e coraggio ai lavoratori e alle lavoratrici di Kazova. Parteciparono anche alle diverse assemblee e gruppi di discussione di Gezi Park e trovarono grande appoggio da parte del movimento. Visto che non ricevevano nessuna risposta né dai proprietari né dalle autorità, incominciarono a preparare l'occupazione degli stabilimenti e il 28 giugno dichiararono pubblicamente: “Noi -i lavoratori della fabbrica tessile Kazova- abbiamo occupato questa fabbrica” (SÖYLEMEZ, 2014, UMUL, 2013). I lavoratori ripararono tre macchinari e prepararono la fabbrica per iniziare di nuovo a produrre.
Il 14 settembre 2013, i lavoratori della Kazova cominciarono a produrre maglioni con la materia prima che era rimasta nella fabbrica. Ogni pezzo aveva una piccola etichetta che spiegava “Questo è un prodotto della resistenza di Kazova!” (SÖYLEMEZ, 2013, UMUL, 2013). La capacità di produzione è di circa 200 pezzi al giorno. Il costo di produzione a pezzo -che si tratti di maglioni o golf- è di circa 20 lire turche (circa 10 dollari). Con i vecchi proprietari i maglioni e i golf si vendevano a un prezzo tra le 150 e le 300 lire turche (da 68 a 135 dollari). I lavoratori decisero di vendere i loro prodotti di alta qualità a prezzi più accessibili, li vendono a 30 lire turche (circa 15 dollari).
All'inizio i lavoratori di Karzova hanno venduto i loro prodotti direttamente fuori dalla fabbrica e nelle diverse assemblee tematiche e di quartiere nate dopo lo sgombero violento di Gezi Park (UMUL, 2013). Tuttavia non ne hanno ricavato alcuno stipendio, visto che i soldi guadagnati hanno dovuto essere investiti (ERBEY; EIPELDAUER 2013). Il 28 settembre Kazova ha organizzato una sfilata di moda dove, al posto di modelle magre, gli invitati hanno potuto vedere i lavoratori e le lavoratrici della fabbrica presentare la loro nuova collezione in passerella. Dopo la sfilata ci fu un concerto con il famoso gruppo musicale comunista Grup Yorum. Un giornalista di sinistra presente alla sfilata commentò che si trattava di una sfilata di moda proletaria e che la moda del proletariato era: “occupare, resistere e produrre” (ERBEY; EIPELDAUER 2013, UMUL, 2013). Lo stesso motto è utilizzato dalle fabbriche recuperate in America Latina e originariamente proviene dal Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra (MST) del Brasile.
Alla fine dell'ottobre 2013, dopo dieci mesi di lotta, un tribunale sentenziò che gli ex proprietari dovessero consegnare ai lavoratori i macchinari restanti come compenso per i salari arretrati (ERBEY; EIPELDAUER, 2013). I lavoratori e le lavoratrici trasferirono i macchinari nei nuovi locali che avevano affittato nel quartiere Kagithane di Instanbul. Questo consentì che i lavoratori cominciassero a pagarsi uno stipendio. I salari sono bassi ma uguali per tutti. I lavoratori di Kazova guardano a sé stessi come parte di un movimento popolare di resistenza internazionale. Come gesto di solidarietà hanno prodotto le magliette delle squadre di calcio dei Paesi Baschi e Cuba, in occasione di una partita amichevole a L'Avana (SÖYLEMEZ, 2014). Il 25 gennaio 2014 i lavoratori Kazova hanno aperto il loro primo negozio al dettaglio: “Kazova resiste! Maglioni e cultura DIH” nel distretto Şişli di Istanbul, dove la fabbrica si trovava in precedenza. Il negozio è anche usato come luogo per le riunioni. Maglioni a prezzi accessibili per il popolo è il motto di Kazova lanciato durante l'inaugurazione del negozio. Ora i lavoratori di Kazova stanno progettando di aprire altri negozi a Instanbul e nel resto della Turchia (SÖYLEMEZ, 2014).
EGITTO: ACCIAIO E CERAMICA
In Egitto ci sono almeno due fabbriche sotto controllo operaio: l'acciaieria Kouta in El Asher City (Tenth of Ramadan City), al nord del Cairo, e Ceramiche Cleopatra, che conta migliaia di lavoratori in due impianti, uno in El Asher City e l'altra in Ain Sukhna. Non è improbabile che ci siano altre fabbriche che hanno seguito l'esempio di Kouta negli ultimi anni di agitazione, dal rovesciamento di Hosni Mubarak, alla fase di transizione, fino all'elezione di Mohamed Morsi e il breve periodo di Mursi al potere prima che fosse rovesciato dai militari. Il rovesciamento di Mubarak il 25 gennaio 2011 è stato preceduto da un crescente movimento indipendentista di lavoratori, che ha organizzato sempre più scioperi e conflitti del lavoro a partire dal 2003 (ALI, 2012). Le lotte operaie hanno sofferto e sono state esposte a una forte repressione sotto Morsi e sotto il regime militare.
L'acciaieria Kouta in El Asher City fu abbandonata dal suo proprietario alcuni mesi dopo aver smesso di pagare i lavoratori, nel marzo 2012. In precedenza, i lavoratori dello stabilimento avevano portato a termine svariate lotte e scioperi attraverso il loro sindacato indipendente. Quando il proprietario fuggì, i lavoratori cominciarono una lotta che “includeva occupazioni e battaglie legali attraverso la Procura Generale e il Ministero del Lavoro. La lotta culminò con una decisione storica del Procuratore nell'agosto 2012, il quale approvò il diritto dei lavoratori di mettere la fabbrica in autogestione e autorizzò l'ingegnere Mohsen Saleh di dirigere la fabbrica” (KOUTA STEEL FACTORY WORKERS, 2013). I lavoratori costituirono delle istanze di presa di decisioni collettive ed elessero un comitato tecnico per il coordinamento della produzione. Per riprendere la produzione i lavoratori dovettero negoziare con i fornitori di gas ed elettricità per ripianificare il debito di 3,5 milioni di dollari lasciato dal vecchio proprietario. Inoltre i lavoratori, che non erano stati pagati per mesi, dovettero ridurre il loro salario della metà per poter comprare materie prime per la produzione. Nell'aprile 2013 l'acciaieria Kouta iniziò la sua produzione sotto la direzione del Comité Técnico dei lavoratori. Poco prima i lavoratori avevano inviato una lettera di solidarietà ai lavoratori di Vio.Me in Grecia (KOUTA STEEL FACTORY WORKERS, 2013).
Ceramiche Cleopatra è una fabbrica di piastrelle, in precedenza proprietà di Mohamed Abul-Enein, membro dell'élite egiziana vicina all'ex presidente Mubarak. Abul-Enein è stato anche membro del parlamento per il Partito Nazionale Democratico di Mubarak. Abul-Enein, che è ampiamente conosciuto come un padrone spietato, chiuse i due impianti produttori di piastrelle Ceramiche Cleopatra senza preavviso, nel luglio del 2012.
Quando non rispettò gli accordi negoziati dopo un'occupazione della fabbrica, i lavoratori viaggiarono a Il Cairo, marciarono fino al Palazzo Presidenziale ed ottennero un accordo negoziato da Morsi. Quando anche quest'accordo rimase lettera morta, irruppero in un edifico governativo a Suez, esigendo un castigo per Abul-Enein. Alla fine occuparono la fabbrica, ripresero la produzione nei propri termini e iniziarono a vendere i loro prodotti direttamente, per assicurarsi un'entrata. (MARFLEET, 2013, p. 21).
CHICAGO: NEW ERA WINDOWS
Il 9 maggio 2013 la cooperativa New Era Windows nella Southwest Side di Chicago ha cominciato ufficialmente la sua produzione sotto controllo operaio. Ha iniziato con 17 lavoratori producendo finestre ad efficenza energetica di alta qualità ad un prezzo rivoluzionario, come spiegano nella loro pagina Internet, “Utilizzare finestre ad efficienza energetica è un modo economico per combattere gli alti costi energetici e fare un passo verso una sostenibilità di lunga durata! [20]”. Tutte le decisioni in fabbrica si prendono nell'assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici, che si riuniscono almeno una volta a settimana. Tutti i lavoratori e le lavoratrici partecipano con voce e voto e hanno lo stesso peso nelle decisioni. Armando Robles, lavoratore della New Era Windows, presidente della sezione sindacale locale 1110 della United Electrical, e tra i principali ispiratori della lotta degli ultimi 12 anni, spiega: “In questo momento le cose sono lente, però sappiamo che nel giro di 2-3 settimane avremo un sacco di lavoro. Adesso stiamo evadendo piccoli ordini e preparando la squadra per una maggior produzione che comincerà nel giro di due o tre settimane” [21].
Per arrivare a questo punto i lavoratori e le lavoratrici dovettero occupare due volte la loro vecchia fabbrica in Goose Island, l'unica isola nel mezzo del Fiume Chicago. La seconda occupazione nel febbraio 2012 terminò con l’ottenimento di un termine di 90 giorni per trovare un nuovo investitore o per comprare loro stessi la fabbrica. I lavoratori scelsero la seconda alternativa. Tuttavia, dovettero ancora superare ancora molti ostacoli.
Dal 2012 i lavoratori hanno superato enormi sfide. In primo luogo, la lotta per il diritto a sedere al tavolo di trattativa per acquisire l'impresa, poi, lo smantellamento della fabbrica e il suo trasferimento attraverso la città verso uno spazio più accessibile dal punto di vista finanziario e appropriato. I lavoratori hanno fatto ciascuno di questi passi da soli e, così facendo, hanno dimostrato l'incredibile potenziale che mai era stato valorizzato nei loro lavori precedenti (THE WORKING WORLD, 2013).
Per ridurre le spese, i lavoratori hanno fatto quasi tutto da sé, togliendo i macchinari che avevano comprato dalla vecchia fabbrica e installandoli nel nuovo luogo di produzione. Hanno persino montato nuove tubature di acqua nel futuro posto di lavoro (CANCINO, 2013). La precedente lotta dei lavoratori di Republic Windows and Doors –per la maggior parte latinoamericani e afroamericani- era stata molto lunga. Nel 2002 i 350 dipendenti dell'impresa avevano attuato uno sciopero non autorizzato perché il sindacato al quale erano stati costretti ad aderire nello stabilimento, non stava agendo nel loro interesse. La lotta operaia contro i bassi salari, gli straordinari e le cattive condizioni di lavoro, non ebbe successo.Però i lavoratori cominciarono ad organizzarsi e nel 2004 si affiliarono con Local 1110, una branca del sindacato di base United Electrical, lavoratori di radio e di macchine d'America (UE), e ottennero che l'impresa firmasse un contratto con UE (LYDERSEN, 2009). Durante il 2007 e il 2008, i lavoratori si resero conto che la produzione stava calando e che stava succedendo qualcosa.
A luglio 2008, la compagnia aveva perso circa 3 milioni di dollari in soli sei mesi […]. I macchinari stavano scomparendo e i lavoratori, che chiedevano perplessi cosa stesse succedendo, ricevevano solo risposte evasive. […] Solo più tardi scoprirono che l’attrezzatura era destinata alla piccola città di Red Oak, Iowa, dove la moglie di Richard Gillman aveva comprato una fabbrica di porte e finestre (LYDERSEN, 2009).
Il 2 dicembre 2008, i 250 assunti in quel momento seppero dall'amministratore dello stabilimento che lo stesso avrebbe chiuso dopo tre giorni, il 5 dicembre. I lavoratori rimasero non solo senza lavoro ed entrate; le assicurazioni sanitarie loro e della loro famiglia sarebbero scadute nel giro di una settimana. I lavoratori e le lavoratrici, inoltre, non avrebbero ricevuto alcun indennizzo per il licenziamento, né sarebbero stati risarciti per i giorni di ferie e malattia accumulati. Questo annuncio dato senza preavviso era totalmente illegale. Il sindacato presentò una denuncia contro l'impresa per violazione del Workers Adjustment and Retraining Notification Act (WARN), una legge federale che stabilisce che i datori di lavoro con 100 o più addetti comunichino con un minimo di 60 giorni di anticipo i licenziamenti massicci. Il sindacato reclamava che l'azienda dovesse ai lavoratori 1,5 milioni di dollari in vacanze e indennizzi per licenziamento e pretese un’estensione dell'assicurazione sanitaria dei lavoratori (CANCINO, 2013, LYDERSEN, 2009).
I lavoratori decisero di rafforzare le loro richieste con uno sciopero bianco e occuparono la fabbrica. Pretesero che la Bank of America e la JP Morgan/Chase, che in passato avevano concesso grandi prestiti alla Republic Windows and Doors, pagassero i lavoratori. Dopo sei giorni di occupazione e tre giorni di dure negoziazioni con entrambe le banche, queste ultime accettarono di pagare i lavoratori, contribuendo con 1.350.000 e 400.000 dollari rispettivamente -sebbene legalmente non fossero responsabili dei lavoratori. Il 15 dicembre 2008, la società si dichiarò in bancarotta. Nel dicembre 2013, l'ex direttore generale di Republic Windows and Doors, Richard Gillman, fu condannato a quattro anni di carcere per il furto di 500.000 dollari dell'impresa [22].
Nel febbraio 2009, Serious Energy con sede in California, specializzata in finestre ad alta efficienza energetica e materiali per l’edilizia a basso impatto ambientale, comprò Republic Windows and Doors promettendo di riassumere a medio termine tutti i lavoratori e di rispettare tutti gli accordi sindacali firmati previamente. Passarono vari mesi e Serious Energy assunse solo 15 lavoratori, e oltre due anni più tardi l’organico massimo della fabbrica arrivò ad essere di 75 lavoratori. Agli inizi del 2012 il personale si ridusse a 38 lavoratori (SLAUGHTER, 2012). Secondo gli stessi lavoratori, come si legge nel sito web della nuova cooperativa:
Sfortunatamente, il piano commerciale di Serious Energy, che includeva la fabbrica di finestre solo con un ruolo terziario, non funzionò mai, e l'impresa dovette tagliare severamente le sue operazioni, inclusa la chiusura della fabbrica. Una volta ancora, i lavoratori, a dispetto del loro ottimo lavoro, si trovarono sacrificati in un gioco finanziario che non potevano controllare (NEW ERA WINDOWS COOPERATIVE, 2013).
La mattina del 23 febbraio 2012 i 38 lavoratori rimanenti furono informati da un avvocato della Serious Energy che lo stabilimento avrebbe chiuso il giorno stesso, spostando la produzione in un altro luogo. Il proprietario aveva perfino chiamato la polizia, che si trovava all’interno dello stabilimento cercando di convincere i lavoratori ad abbandonarlo. Nel giro di pochi minuti i lavoratori decisero di occupare nuovamente l'impianto, senza nessuna preparazione e privi di tutto, dai sacchi a pelo al cibo. Ma questa volta i lavoratori non erano soli. Gruppi comunitari, organizzazioni di lavoratori e Occupy Chicago mobilitarono la fabbrica. La notte di quello stesso giorno c'erano già 65 persone dentro lo stabilimento e altre 100 fuori, che passavano ai lavoratori e alle lavoratrici sacchi a pelo, pizze, tacos e bevande (CANCINO, 2013, SLAUGHTER, 2012). I lavoratori pretesero che Serious Energy mantenesse la fabbrica in funzione per altri 90 giorni, mentre il loro sindacato avrebbe cercato un nuovo investitore o gli stessi lavoratori avrebbero comprato lo stabilimento. Consapevole delle pregresse vicende di attivismo dei lavoratori, Serious Energy accettò le loro richieste dopo 11 ore (SLAUGHTER, 2012).
I lavoratori e le lavoratrici avevano come obiettivo raccogliere soldi e comprare la fabbrica per formare una cooperativa controllata da loro stessi. Ma Serious Energy era intenzionata a vendere la fabbrica al miglior offerente, imponendo così livelli di prezzo inaccessibili ai lavoratori. Cosicché i lavoratori dovettero lottare per il diritto di partecipare al tavolo di trattativa per comprare la loro vecchia impresa. Ebbero successo grazie allo sviluppo della pressione pubblica e politica e formarono una cooperativa. Ogni lavoratore contribuì con 1.000 dollari per la cooperativa e l'organizzazione senza fini di lucro The Working World di New York, che appoggia cooperative controllate dai lavoratori in Argentina e Nicaragua fornendo crediti e assistenza tecnica, concesse alla cooperativa un credito di 665.000 dollari. Con questi soldi i lavoratori comprarono i macchinari di produzione e li trasferirono nel loro nuovo stabilimento che avevano affittato nel quartiere di Brighton Park, a sudovest di Chicago. I lavoratori presero lezioni di gestione cooperativa e si prepararono ad amministrare l'impresa (THE WORKING WORLD, 2013). Un anno dopo, gli ex lavoratori di Republic Windows and Doors producevano finestre sotto il loro stesso controllo.
SFIDE COMUNI PER LE IMPRESE RECUPERATE DAI LAVORATORI
Le imprese occupate o recuperate contemporanee si trovano spesso ad affrontare sfide simili. Tra queste sfide c'è spesso il mancato appoggio dei partiti politici e dei sindacati burocratici o addirittura la loro aperta ostilità; il rifiuto e il sabotaggio da parte dei vecchi proprietari e dalla maggioranza degli imprenditori capitalisti e dei loro rappresentanti; la mancanza di forme giuridiche di impresa che corrispondano alle aspirazioni dei lavoratori e un contesto instituzionale inesistente o insufficiente; intralci da parte delle istituzioni dello stato e poco o nessun accesso all'aiuto finanziario e ai prestiti, men che mai da parte di istituzioni private.
Il contesto generale che affrontano le imprese recuperate non è favorevole. Le occupazioni hanno luogo durante una crisi economica mondiale. Cominciare nuove attività produttive e conquistare quote di mercato in una economia recessiva non è un compito facile. Perdipiù, il capitale disponibile come sostegno per le imprese recuperate dai lavoratori è minore di quelle capitaliste. In generale, un'occupazione, e il recupero di una fabbrica si realizza dopo che il proprietario ha abbandonato la fabbrica e i lavoratori, sia -letteralmente- scomparendo, sia cacciando i lavoratori da un giorno all'altro. I proprietari devono ai lavoratori stipendi arretrati, giorni di ferie e indennizzi. I proprietari spesso iniziano, ancora prima della chiusura della fabbrica, a sottrarre macchinari, veicoli e materie prime. In questa situazione, con la prospettiva di una lotta lunga e senza, o con poco, appoggio finanziario e con un risultato incerto, i lavoratori più qualificati, e sovente anche quelli più giovani, lasciano l'impresa con la speranza di migliori opzioni o per cercarsi un nuovo lavoro. I lavoratori che rimangono devono acquisire conoscenze aggiuntive in vari campi per controllare non solo il processo di produzione in senso stretto, ma anche per amministrare tutta l'impresa, con tutto quello che questo implica. Ma una volta che i lavoratori si fanno carico della fabbrica e la riavviano, il vecchio proprietario d'improvviso riappare e domanda che gli venga restituita l'impresa.
Contrariamente alla credenza comune che vede i capitalisti preoccuparsi solo degli affari senza interessarsi né a come vengono fatti né con chi, le imprese controllate dai lavoratori si trovano a fronteggiare non solo gli svantaggi che il capitalismo riserva a quelli che seguono una logica diversa, ma anche costanti attacchi e ostilità da parte di imprese e istituzioni capitaliste come pure da parte dello stato borghese. Le imprese controllate dai lavoratori che non si sottomettono totalmente alle regole del capitalismo, sono considerate una minaccia, perché mostrano che è possibile lavorare in un modo diverso. La fabbrica venezuelana di valvole Inveval, controllata dai lavoratori, per esempio, si è trovata di fronte al fatto che una parte delle valvole che aveva fatto produrre presso fonditrici private, sono state prodotte intenzionalmente difettate (AZZELINI, 2011).
L'industria farmaceutica Jugoremedija a Zrenjanin, Serbia, l'unica fabbrica controllata dai lavoratori nell'ex Jugoslavia, si è vista obbligata a dichiararsi in fallimento nell'aprile 2013 dopo sei anni sotto controllo operaio. Ora si trova in amministrazione controllata e le possibilità che i lavoratori recuperino un'altra volta il controllo dell'impresa sono minime. I lavoratori cominciarono ad auto-amministrare l'impresa nel marzo 2007 dopo una dura lotta contro la privatizzazione. Durante gli anni seguenti Jugoremedija produsse e commercializzò i suoi prodotti con successo. Nel 2013 le banche tagliarono il credito anche se Jugoremedija aveva pagato le sue quote e il debito fu causato in parte da un ex azionista criminale. Pertanto, l'impresa dovette dichiararsi in fallimento [23].
CARATTERISTICHE COMUNI DELLE IMPRESE RECUPERATE: CONCLUSIONE
I casi conosciuti di imprese recuperate dai lavoratori che sono stati descritti qui, presentano enormi differenze tra di loro. Alcune fabbriche dispongono di macchinari moderni e sono totalmente funzionali dal punto di vista tecnico. Altre sono state letteralmente saccheggiate dai vecchi proprietari e devono ricominciare da zero. Alcune fabbriche hanno potuto contare sull'appoggio di autorità locali, altre sull'appoggio dei sindacati. Le caratteristiche comuni non rappresentano una lista di requisiti obbligatori per stabilire l'autenticità delle fabbriche recuperate. Le caratteristiche comuni descritte sono un repertorio di caratteristiche cui non necessariamente tutte le fabbriche recuperate rispondono completamente. Dall'altra parte, ogni caratteristica fuori contesto e separata dalle altre non è portatrice di una prospettiva differente, oltre il capitalismo. È la combinazione di varie caratteristiche a rendere le imprese recuperate laboratori e motori di un futuro desiderato diverso.
Tutti i processi di recupero e le fabbriche recuperate sono amministrati democraticamente. La presa di decisioni si basa sempre su forme di democrazia diretta con uguaglianza di voto tra tutti i partecipanti, sia attraverso consigli o assemblee. Questi meccanismi di democrazia diretta adottati dalle imprese sotto controllo operaio prospettano importanti domande, non solo sulle imprese stesse, ma anche su come si debbano prendere le decisioni nel complesso della società. In questo modo, si mettono in discussione non solo le imprese capitaliste ma anche la logica di governabilità liberal-democratica e rappresentativa.
Un'altra caratteristica comune evidente è l'occupazione. Questo significa commettere un'azione considerata illegale e quindi entrare in conflitto con le autorità. Si tratta di un'azione diretta da parte dei lavoratori. Loro non sono rappresentanti e nemmeno restano ad aspettare una rappresentanza -un sindacato, o un partito- o addirittura le istituzioni dello Stato perché risolvano il problema prima di entrare in azione. Come giustamente sottolinea Malabarba: “L’azione va rovesciata: prima si costruisce l’iniziativa, si occupa, e poi si entra in relazione con istituzioni che hanno fallito più o meno coscientemente” (MALABARBA, 2013, p. 149).
Massimo Lettieri di Ri-Maflow spiega:
Illegalità è un concetto abbastanza elastico. Noi ci abbiamo pensato e siamo arrivati a una conclusione: le leggi le fanno al parlamento e la norma è che queste regolino qualcosa che sta già succedendo. L'unica legge a favore dei lavoratori che hanno fatto passare è stata la legge 300 del 1970, lo Statuto dei Lavoratori. Perch hanno fatto questa legge? Perché c'era un movimento e perché il suo contenuto era già presente nei contratti dei lavoratori metalmeccanici, i lavoratori avevano già conquistato questo diritto. Alla fine, la legge peggiorò persino quello che era scritto nel contratto collettivo dei lavoratori metalmeccanici... Così che quella legge è andata a normare qualcosa che già esisteva. Se vogliamo che un giorno ci sia una legge di esproprio che stabilisca che se un'impresa vuole trasferire la produzione o se fallisce, allora deve passare nelle mani dei lavoratori perché loro possano portarla avanti; se vogliamo una legge di espropriazione, prima di tutto dobbiamo prenderci la fabbrica. Devi cominciare dall'illegalità. Quando ci sarà un movimento di riappropriazione dei mezzi di produzione, ci sarà anche una legge per noi. E noi stiamo iniziando a costruire questo percorso [24].
L'esperienza latinoamericana conferma questa affermazione. In Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela i lavoratori hanno sempre preceduto partiti, sindacati e istituzioni per le risposte pratiche. Espropri, nazionalizzazioni, leggi, appoggio finanziario e tecnico, ecc., sono sempre arrivati dopo l'iniziativa dei lavoratori e sono stati una risposta alla lotta e all'azione diretta [25]. Lo stesso vale per l'attività produttiva sviluppata dalle imprese recuperate: seguire rigorosamente la legge, aspettare tutte le autorizzazioni legali e pagare tasse significherebbe semplicemente non iniziare mai l'attività.
La maggior parte delle fabbriche deve reinventarsi, spesso l'attività produttiva precedente non può essere portata avanti nello stesso modo (perché i macchinari sono stati rimossi dal proprietario, perché era un'attività altamente specializzata, con pochi clienti ai quali i lavoratori non hanno accesso, o perché i lavoratori decidono così per altre ragioni). In tutti i casi meglio documentati troviamo che gli aspetti ecologici e le questioni di sostenibilità ambientale assumono un ruolo centrale, sia che questo si orienti verso progetti di riciclaggio, come nel caso delle due fabbriche italiane; il cambio di produzione di Vio.Me di Salonicco da colla industriale e solventi a prodotti biologici per la pulizia; o le due fabbriche in Francia che pure si sono orientate verso prodotti biologici e l’utilizzo di materie prime locali e regionali, e verso una distribuzione dei prodotti a livello locale e regionale. La problematica è concepita dagli stessi lavoratori in un contesto più ampio: il futuro del pianeta da una parte, le minacce per la salute dei lavoratori e della comunità circostante dall'altra. L'importanza degli aspetti ecologici è parte della nuova società che lavoratori e lavoratrici aspirano a costruire, così come lo sono le pratiche democratiche.
La lotta dei lavoratori e il posto di lavoro occupato o recuperato diventa anche uno spazio nel quale si sviluppano e si praticano nuove relazioni sociali: fiducia basata sull'affettività, mutuo aiuto, solidarietà tra i partecipanti e solidarietà verso gli altri, partecipazione e uguaglianza sono alcune delle caratteristiche delle nuove relazioni sociali che si costruiscono. Nuovi valori sorgono o. per lo meno, valori diversi da quelli che caratterizzano il processo di produzione capitalista. Per esempio, si può notare che una volta che sono i lavoratori a decidere, la sicurezza sul lavoro si converte in priorità.
Le fabbriche recuperate generalmente sviluppano un forte legame con il territorio. Appoggiano la comunità e godono dell'appoggio della comunità, interagiscono con diverse soggettività presenti sul territorio e sviluppano iniziative collettive. Costruiscono e rafforzano anche legami con diversi movimenti sociali e organizzazioni politiche e sociali. Tutte le fabbriche citate in questo capitolo hanno una relazione diretta con i movimenti sociali, e specialmente con i nuovi movimenti che fanno parte della rivolta mondiale a partire dal 2011. Queste modalità trovano riscontro nelle esperienze in America Latina, dove i recuperi riusciti delle fabbriche si caratterizzano per un forte radicamento nel territorio e strette relazioni con altri movimenti.
L'ancoraggio al territorio contribuisce anche a far fronte a un'altra importante sfida: i cambi delle forme del lavoro e della produzione hanno ridotto drasticamente il numero totale di lavoratori con contratti a tempo pieno, così come hanno ridotto la quantità di lavoratori in organico in ogni impresa. Mentre in passato lavoro e processo di produzione generavano automaticamente coesione tra lavoratori, oggigiorno il lavoro ha un effetto dispersivo, poiché spesso i lavoratori e le lavoratrici di una stessa impresa lavorano con contratti diversi e con status differenti. Generalmente sempre più lavoratori sono spinti verso condizioni precarie e al lavoro autonomo (anche se la sua attività dipende totalmente da un unico datore di lavoro). Come possono organizzarsi questi lavoratori e queste lavoratrici e quali sono i loro strumenti di lotta? Questa è una domanda importante che la sinistra deve fronteggiare per ottenere la vittoria sul capitale.
Ri-Maflow e Officine Zero in Italia hanno stretto forti legami con la nuova composizione del lavoro, condividendo i loro spazi con lavoratori precari e indipendenti. Officine Zero spiega il suo approccio: “Vogliamo cominciare di nuovo partendo dalle origini del movimento operaio unendo conflitto, mutualismo e produzione autonoma” (BLICERO, 2013). Forme di organizzazione territoriale sono state discusse e anche messe in pratica con maggiore frequenza durante gli ultimi anni. In Italia, nel 1997, Marco Revelli (1997) nel suo libro La Sinistra Sociale, ha perorato un modello di organizzazione territoriale basato su case di lavoro in grado di riunire tutti i lavoratori e le lavoratrici in un distretto, così come esistevano agli albori dell'industrializzazione.
Note:
[1] Comunicazione personale di Andrés Ruggeri del 4 maggio 2014 sui risultati inediti del Informe del Cuarto Relevamiento de Empresas Recuperadas por sus trabajadores, condotto dal Programma Facultad Abierta della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires, Secretaría de Investigación / Secretaría de Extensión Universitaria.
[2] Con l’eccezione dell’Egitto, dove questa affermazione non è verificabile per mancanza di informazioni.
[3] Andrés Ruggeri, ricercatore militante e direttore del programma Facultad Abierta della cattedra di filosofia dell’Università di Buenos Aires, ha viaggiato in varî Paesi europei e ha messo in contatto diversi esponenti di fabbriche recuperate.
[4] I soci esterni sono quelli che possiedono quote della cooperativa senza lavorare in essa. Gli investitori, invece, sono di solito proprietari di una parte dell’impresa mentre l’organizzazione cooperativista detiene l’altra parte di proprietà dell’impresa.
[5] Internationalisation consolidates MONDRAGON’s industrial business with sales abroad in excess of €4bn. TUlankide. MONDRAGON Corporation’s news. June 17, 2013. http://www.tulankide.com/en/internationalisation-consolidatesmondragon20....
[6] Bibby, Andrew. Workers occupy plant as Spanish co-operative goes under. The Guardian. November 15, 2013. http://www.theguardian.com/social-enterprise-network/2013/nov/15/spanish....
[7] Intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[8] Gérard Cazorla, intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[9] Intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[10] Intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[11] Intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[12] La “Cassa integrazione guadagni straordinaria”, CIGS, è una modalità grazie alla quale i lavoratori di imprese chiuse ricevono l’80% del salario per un anno, con possibilità di estensione per un secondo anno.
[13] Intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[14] Intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[15] Massimo Lettieri, Ri-Maflow, Milano, intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[16] Sussidio di disoccupazione speciale dopo la CIGS, concesso in condizioni speciali. I primi mesi ammonta al 100% della CIGS, in seguito all’80% della CIGS.
[17] Intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[18] Intervista dell’autore, 31 gennaio 2014
[19] Intervista dell’autore, 31 gennaio 2014
[20] New Era Windows Cooperative. http://www.newerawindows.com/
[21] Armando Robles, intervista dell’autore, 2 marzo 2014.
[22] “Republic Windows ex-CEO gets 4 years in prison”. Chicago Tribune. December 05, 2013.
[23] Milenko Sreckovic, entrevista del autor, 19 febbraio 2014.
[24] Massimo Lettieri, Ri-Maflow, intervista dell’autore, 31 gennaio 2014.
[25] Con l’eccezione del Venezuela, dove alcune espropriazioni, nazionalizzazioni e iniziative politiche sono state messe in atto da istituzioni governative. Anche così i lavoratori devono lottare per una reale partecipazione nell’amministrazione del loro posto di lavoro e per il controllo operaio (AZZELLINI, 2011).
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