La guerra al terrorismo è un’occupazione piena per questi ragazzi
Das Unternehmen Krieg
Ai tempi delle cosiddette guerre mondiali lo sterminio di massa era ancora abbastanza trasparente e gli attori, così come i loro interessi, erano relativamente noti in confronto, almeno, alle guerre attuali. Ciò si deve, non da ultimo, al fatto che ad affrontarsi erano, per lo più, degli eserciti. Ritenere però che questi fossero maggiormente organizzati, secondo un diritto di guerra, o addirittura meno crudeli, è decisamente un errore. Spesso, oggi, per profani politicamente interessati è ancora poco intuibile chi, in segreto o apertamente, sia appoggiato da chi, perché e con quali mezzi conduca una guerra. Ciò accade in Afganistan così come in Congo, in Liberia, in Indonesia o in Kashmir. Di sicuro però, con le guerre si guadagna molto denaro. Ma già l’identità di coloro che ne traggono profitto è varia e spazia dai grossi produttori di armi fino ai piccoli saccheggiatori. Dell’”impresa” guerra si occupano, in questo volume, Dario Azzellini e Boris Kanzleiter, facendo luce sulle forme moderne della violenza bellica.
Nella descrizione degli attuali fenomeni di violenza e guerra ha trovato ampia diffusione nella pubblicistica, la categoria di ‘nuove guerre’. Sotto questa categoria vengono sussunte le più diverse forme di conflitti violenti a carattere prevalentemente intrastatale, che scaturiscono da guerre civili, guerriglie o dalle cosiddette guerre a bassa intensità in regioni in cui il monopolio statale della violenza si è disgregato con evidenza nel modo più completo e in cui ormai le forze armate regolari sono solo un attore accanto ad altri. Alle forme fenomeniche di queste nuove guerre appartengono la violenza organizzata, dalla quale è colpita principalmente la popolazione civile, così come l’intreccio di guerra ed economia (la cosiddetta economia di guerra), in quanto per molti degli interessati la guerra è divenuta una condizione vitale.
Nonostante si richiami spesso l’attenzione sulla confusione e la complessità delle nuove forme degli eventi bellici, questa categoria induce a semplificazioni arbitrarie. Con il presente volume collettaneo si tenta appunto di ovviare a questo «discorso sulle nuove guerre», con una serie di case studies. Per un verso gli interventi mettono in luce la singolarità e la particolaritò di alcuni conflitti, ma al contempo rendono evidente quanto vi è in essi di esemplare. Fin troppo rapidamente si va infatti insinuando, nella discussione pubblica, uno schema interpretativo semplificatorio, che può poi essere applicato senza attriti alle immagini televisive: lo schema delle nuove guerre barbariche, viste come il risultato di stati in rovina, in via di disgregazione o semplicemente deboli. La trasparente controimmagine delle “nuove” guerre è quella delle “vecchie” guerre classiche, che vi appaiono al contrario come guerre «statualmente delimitate» e in qualche modo più civilizzate.
Questa interpretazione è discutibile non solo dal punto di vista storico: infatti, anche la prima e la seconda guerra mondiale, a dispetto della loro “delimitazione statuale”, hanno offerto esempi di crudeltà estrema proprio contro la popolazione civile. È significativo, inoltre, che attraverso tali costrutti teorici si procurino le basi di legittimazione per l’accettazione di futuri interventi militari. Si elabora pure, così, l’adesione ad un appello al riarmo che sempre più a gran voce riecheggia attraverso il mondo occidentale, e specialmente in Europa. Con questo volume i curatori hanno voluto anche mostrare che la distinzione tra vecchie e nuove guerre alla fin fine «viene compresa allo stesso tempo, con una torsione normativa, come distinzione tra guerre ‘giuste’ e guerre ‘sbagliate’». Che gli stati occidentali si approprino sempre più di una simile dicotomia, lo dimostrano le esperienze degli anni passati.
Un’altra cosa, poi, è emersa in tutta evidenza dai più recenti conflitti: che il diritto internazionale non è ormai più preso sul serio. Se una qualunque di queste cosiddette nuove guerre rappresenta una minaccia alla ‘sicurezza internazionale’, sia pure solo nel senso di un’interruzione nell’afflusso delle risorse, allora si interviene militarmente in un’azione di nation building, della creazione di una infrastruttura statale e di un monopolio della forza. Anche la NATO, già in occasione del suo cinquantesimo anniversario nel 1999, ha in qualche modo riscritto il suo statuto appunto in questa direzione. E il caso dell’Afganistan ha mostrato qualcosa di ulteriore: sia l’appoggio e l’armamento dei mujaidin contro i sovietici, sia il più recente intervento statunitense e britannico con l’aiuto dei signori della guerra ostili ai talebani, sono dimostrazioni eloquenti degli intrecci sempre più impenetrabili tra attori occidentali e attori locali.
I saggi raccolti in questo volume partono da una prospettiva influenzata dal volume “Empire” di Antonio Negri e Michael Hardt. In quest’ottica è la trasformazione neoliberale del sistema internazionale, sollecitata fin dagli anni ’70, a condurre poco a poco al consolidamento di un nuovo ordine mondiale. Una costruzione linguistico-politica coniata, del resto, da Bush senior, che aveva proclamato questo nuovo ordine in occasione della prima [nel testo: seconda] guerra del Golfo, poco dopo la fine della guerra fredda. Che un nuovo ordine mondiale implichi anche un nuovo ordine bellico è indicato emblematicamente già nel sottotitolo del volume. Ma ciò non significa che gli autori leggano le nuove guerre, che prima di tutto sono fenomeni singolari, attraverso la lente di un materialismo storico attualizzato. Piuttosto, attraverso case studies, vengono approfonditi i rapporti locali, attraverso anche informazioni originali. A un saggio introduttivo, che chiarisce l’orientamento teorico-politico del volume, seguono quindi ricerche sulla Colombia, la Turchia, il Messico, il Guatemala, l’ex-Jugoslavia, l’Afghanistan, l’Indonesia, il Congo e l’Angola.
Accanto alle singole osservazioni e informazioni si richiama l’attenzione, in questo contesto, su di un interessante nuovo fenomeno: la privatizzazione delle prestazioni militari di servizio. Uno dei due curatori, Boris Kanzleiter, si occupa nel suo saggio del diffondersi delle cosiddette PMC, cioè delle ‘Private Military Companies’. Kanzleiter cita le seguenti parole del ministro per la difesa statunitense Donald Rumsfeld: «Dovrebbero rimanere insediate presso il Ministero della Difesa solo quelle funzioni che devono venire adempiute assolutamente dal Ministero stesso».
Logistica, trasporto, approvvigionamento, allenamento e consulenza militare sono già stati in gran parte dismessi dall’esercito statunitense e dati in appalto a imprese private. La privatizzazione degli stessi incarichi di combattimento, invece, è ancora in discussione. Solo recentemente il New York Times scriveva: «Nessuno sa esattamente quanto si estenda questa misteriosa industria».
Si deve tuttavia anche supporre che i compiti di questa industria possano racchiudere ben più di un segreto. Al contrario, non è più affatto un segreto che, con l’11 settembre, si siano aperti nuovi mercati per i settori in espansione.
«La guerra al terrorismo è un’occupazione piena per questi ragazzi». Così si è espresso il portavoce della Defense Security Cooperation Agency, un dipartimento del ministero statunitense per la difesa che coopera con le aziende militari private, legali negli USA. Intanto si riflette anche sulla regolazione legislativa delle zone grigie giuridiche che sono già sorte. Questo almeno è quanto ha annunciato il ministro degli esteri inglese Jack Straw, visto che alcune delle PMC leader a livello mondiale hanno sede anche in Gran Bretagna. In effetti, a rendere questa prospettiva inquietante, c’è non solo il fatto che la dismissione crescente dei compiti militari che un tempo erano statali risulti maggiormente conveniente per gli stati occidentali, ma anche che il fare guerre incontri in tal modo sempre meno ostacoli. Con ciò si aprirebbe la via ad occulte influenze nella gestione della politica estera, e anche all’elusione del controllo pubblico così come delle regole del diritto internazionale. Si possono già addurre degli esempi che vanno in questa direzione. Come il caso citato da Kanzleiter dell’impresa statunitense, operante a livello mondiale, Military Professional Resources Incorporated, abbreviata in MPRI, che venne fondata alla fine degli anni ’80 da ex dirigenti statunitensi del settore militare e dei servizi segreti. Negli anni ’90 il MPRI prese parte in modo decisivo alla formazione e alla consulenza dell’allora appena costituitosi esercito croato. Oggi si discute a L’Aia l’operazione croata contro la repubblica serba della Krajina, assieme alla pulizia etnica che ne seguì, e non è più un mistero per nessuno che la pianificazione della campagna di riconquista croata porta i tratti della strategia statunitense.
Le ricerche qui raccolte mostrano, attraverso esempi presi da ogni parte del mondo, che la separazione tra esercizio della forza statale e privato, tra interessi militari ed economici, tra criminalità organizzata e mercato mondiale, tra primo e terzo mondo e, ultima ma centralissima, la distinzione tra stato di normalità e di guerra, sta diventando sempre più porosa. Era anche intenzione dei curatori corroborare empiricamente la tesi dello stato di eccezione come paradigma dominante dell’attuale modo di governo. Possiamo pure lasciare aperta la questione se questa congettura sia sostenibile da un punto di vista teoretico. Tuttavia, in tempi in cui condurre guerre preventive è divenuta la dottrina ufficiale per la sicurezza statunitense, vale la pena riflettere a fondo su questa ipotesi.